“Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire.”
Marie Curie o Margherita Hack… Non importa quale grande mente abbia pronunciato questa frase, ciò che conta è il messaggio potente e universale che essa veicola. L’asserzione ha tutto il fascino di un aforisma profondo, denso, e immaginifico ma nel mondo contemporaneo, immerso in un groviglio inestricabile di tecnologia e algoritmi, possiamo ancora, davvero, capire? Soprattutto, per chi è ancora possibile capire?
Capire nell’era digitale: un’illusione perduta?
Un tempo, capire era alla portata di molti: il motore a scoppio, una delle grandi invenzioni dell’umanità, poteva essere compreso, manipolato e riparato non solo dagli scienziati che lo avevano ideato, ma anche da un semplice meccanico che aveva imparato il mestiere in officina. La rivoluzione industriale ha cambiato il mondo, ma ha mantenuto una sorta di “democraticità” e “accessibilità” della comprensione. Oggi, al contrario, siamo di fronte ad una rivoluzione tecnologica radicalmente diversa: dagli algoritmi di deep learning che crescono e si evolvono autonomamente ai sistemi di intelligenza artificiale generativa e non, tanto complessi da risultare opachi persino ai loro creatori.
Non siamo di fronte a una rivoluzione tecnologica democratica ed essoterica, intuibile e fruibile almeno ai pochi iniziati. Siamo di fronte a un sovvertimento tecnologico a-democratico ed esoterico nel senso più stretto del termine: la conoscenza diventa inaccessibile anche ai creatori stessi delle tecnologie, poiché il loro funzionamento si basa su processi autoalimentati e in costante mutazione.
Il paradosso della comprensione: siamo nel buio dell’iperstoria
La frase di Madame Curie andrebbe quindi, ahinoi, aggiornata: “Nella vita bisogna temere l’impossibilità di capire.”
Viviamo, infatti, in un’epoca in cui la macchina ha preso il sopravvento – l’Iperstoria come da geniale definizione del Prof. Luciano Floridi – non perché un sadico demiurgo robotico ci abbia sottomessi, ma perché è divenuta indispensabile e insostituibile per il nostro vivere quotidiano.
Tale sconvolgimento etico e tecnologico, incontrollabile e incomprensibile per la velocità con cui si sviluppa, ci pone di fronte a un problema cruciale: chi può ancora comprendere? Esistono oggi veri depositari della conoscenza? La risposta, inquietante, è che non esistono più sapienti o veggenti in grado di prevedere il futuro, come dimostrano le parole di Sam Altman, CEO di OpenAI, e Geoffrey Hinton, uno dei padri dell’intelligenza artificiale, i quali hanno ripetutamente dichiarato di non avere soluzioni definitive per controllare i sistemi di IA che essi stessi hanno contribuito a creare.
La preoccupazione di questi “pionieri” è drammaticamente concreta se declinata nella miriade di applicazioni tecnologiche con cui sempre di più mescoliamo la nostra vita fisica. Nel 2023, un gruppo di mille esperti richiese una moratoria di sei mesi per fermare lo sviluppo incontrollato dell’IA. Quale fu il risultato di quell’appello? Nulla. Le pressioni economiche e il fascino della potenza tecnologica hanno prevalso, lasciando irrisolte le questioni fondamentali sulla comprensione e il controllo delle macchine.
Comprendere per proteggere: l’educazione digitale come bussola
Non dobbiamo, tuttavia, arrenderci ma abbiamo comunque il dovere di provare a svelare gli arcani: in una parola, comprendere.
Per arrivare alla comprensione non possiamo però, prescindere da due elementi fondamentali:
1. Conoscere: prima di tutto bisogna disporre di un solido bagaglio di strumenti culturali e tecnici.
2. Diffondere la conoscenza: la comprensione non può rimanere confinata a un’élite, altrimenti si rischia di cadere in un’onanistica autoreferenzialità cognitiva, mentre il resto dell’umanità precipita nell’oscurità di nuovi secoli bui.
Se vogliamo evitare un futuro dominato da un determinismo meccanico e incomprensibile in cui l’essere umano si “oggettifica” in mero elemento di consumo, dobbiamo investire in massicce campagne di educazione digitale. Fin dalle scuole primarie è necessario insegnare non solo a usare la tecnologia, ma a comprenderne le implicazioni etiche, sociali e culturali, insegnando alle nuove generazioni ( e avendo l’umiltà di imparare noi stessi) cosa c’è dietro lo schermo: un nuovo concetto di educazione civica digitale, che deve fornire ai cittadini gli strumenti per difendere la propria identità digitale e la propria umanità nel digitale, tramite un uso ed un controllo sempre più consapevole dei propri dati personali.
Il RGPD (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati) rappresenta un primo passo importante verso questa consapevolezza. Esso sancisce un principio fondamentale: che il dato appartiene alla persona e che ogni individuo ha il diritto di decidere come esso possa essere utilizzato ma anche non utilizzato, con la facoltà di modificare in ogni momento le proprie scelte.
Nell’era digitale infatti – in cui trascorriamo sempre più parte della nostra vita vigile “connessi” – l’essere umano diventa persona-dato, bisognevole delle stesse protezioni del suo gemello umano. Ma una normativa, per quanto avanzata, non basta. Serve una cultura della protezione dei dati, una mentalità diffusa che vada oltre la legge e si radichi nella coscienza collettiva.
Conclusione: un ritorno alla saggezza antica per affrontare il futuro digitale
In questo contesto, torna attuale la metafora della caverna di Platone: oggi più che mai avremmo bisogno di filosofi che ci aiutassero ad uscire a vedere le cose reali con la luce del sole, distinguendo il Vero dalle ombre proiettate dal fuoco digitale delle macchine. Nell’ era digitale, tuttavia, gli influencer hanno soppiantato i filosofi ma non possiamo lo stesso permettere che la nostra comprensione del mondo sia basata su simulacri digitali e immagini manipolate. È necessario riscoprire il valore della conoscenza autentica, quella che affonda le sue radici profonde nella cultura e nella storia.
Come scriveva J.R.R. Tolkien: “Le radici profonde non gelano.”
Solo radicandoci nella tradizione e coltivando la coscienza critica attraverso l’apprendimento, potremo affrontare le sfide dell’era digitale senza esserne sopraffatti. La comprensione, la conoscenza e la consapevolezza non sono accessori, ma strumenti essenziali per garantire un futuro in cui l’uomo possa ancora essere padrone del proprio destino e non un mero ingranaggio nell’infinito processo delle macchine.
La chiave è l’educazione. Solo un’educazione digitale capace di coniugare tecnologia, etica e cultura potrà salvarci dall’impossibilità di capire e restituirci la speranza di un futuro luminoso, non fatto di ombre, ma di verità visibili e comprensibili.